Vuoi rovinarti la domenica?
Questa newsletter è una mia velleità che si sforza di trovare un lieto fine.
Ti ho già confessato più volte che consumo ingenti quantità di tv spazzatura. Non pensare che lo rivendichi senza vergogna. Me ne vergogno eccome. E il motivo per cui non lo ometto è che me ne vergognerei ancor di più se lo facessi di nascosto. Dichiararlo, espormi al giudizio negativo altrui, mi sembra mi assolva un po’. Mi sembra attenui la colpa. Sì, perché so benissimo che potrei essere una persona 400 volte migliore se investissi energie in attività più stimolanti, ma non lo faccio e buona parte del mio tempo la spendo così: guardando la merda.
Il consiglio prezioso
Who’s bad: Guarda, guarda e poi guardati.
Riflettevo
Mi sento giudicata? Sì, certo. Persino dagli oggetti mi sento giudicata. Da quel libro letto a metà sul tavolino, dalla sequenza di ashtanga stampata su fogli stropicciati, dalle cuffie che indossa Marito quando, tra Chi l’ha visto e un trattato di filosofia, sceglie inspiegabilmente il secondo. Quelle cuffie sono così grandi da rendere superflua qualsiasi manifestazione esplicita di disappunto. Sono grandi quanto la vergogna che sento di dover provare. Ma questa vergogna, pur occupando un bel pezzo di divano, mi lascia comunque lì comoda, non cambia le mie abitudini e soprattutto non cambia canale.
Capita però alle volte che la vergogna si sgonfi mentre assisto a momenti di televisione così bassi da fare il giro e diventare importanti. Capita, sì, che lo spettacolo sia così raccapricciante da accendere un disgusto per la vita più denso, appiccicoso, infestante di qualsiasi vergogna.
È successo lunedì e poi ancora giovedì. E, pensa un po’, ora è qui a rovinarti la domenica. Ma non voglio raccontarti per filo e per segno quello che ho visto. In fondo se non ti guardi la merda non sarò io a propinartela. E poi, cosa è successo, così, a grandi linee, lo saprai anche tu, la notizia è apparsa ovunque: Marco Bellavia abbandona il Grande Fratello perché bullizzato da gente che non si è apparentemente accorta di un suo non rivelato disturbo psicologico. A questo sono seguiti riprovazione sociale, scuse e accuse, forse denunce, discorsi tutti sbagliati, tensioni e merda. Tanta merda.
E un gran garbuglio di scaricabarili, un tutti contro tutti. Ma tutti tutti. Anche chi non è lì dentro, anche chi non se lo guarda in qualche modo ne fa parte. Un vortice di melma in un secchio enorme che trabocca.
E io che sono sul divano, allenatissima a trattenere il fiato per l’imbarazzo di fronte a spettacoli osceni, non mi scandalizzo neanche questa volta ma sento qualcosa che trema. C’è un gorgoglio sotterraneo in corrispondenza del divano, forse una falda di cui non mi ero accorta.
E mentre provo ad aggrapparmi alla parola vuoto e alle sue trite declinazioni, vuoto culturale, vuoto valoriale, a me per la prima volta sembra tutto troppo pieno invece, un secchio pieno appunto, e pieno di materia orribile, che vedo strabordare e coprire tutto.
Ma non vorrei si sporcasse il divano, così provo a eliminare questi residui appiccicosi che ho sulle braccia e tra i capelli, e nel frattempo cerco la fonte, la falda, la crepa nel secchio. E mi accorgo, colpo di scena, che non sta nella tv né nella mia abitudine di guardare la tv.
E se questo blob colloso e nero non parte dalla tv, allora, penso, è tutto il contrario: viene da qui, da dove sto io. È qui che vive e si gonfia. E si è esteso così tanto da arrivare fino alla tv. Solo che a ‘sto giro la tv non è riuscita ad arginarlo mi sa, l’ha fatto entrare pure lì e me l’ha mostrato più chiaramente, me l’ha messo davanti agli occhi.
E qui comincio a capire qualcosa. Capisco che la fame di fama di quei poveracci in televisione è la stessa fame di fama o accettazione in cui sguazzo, la voglia di essere di più di niente, la scia che lascia un name-dropping compulsivo, il tic dello show off, il risultato professionale, l’evento a cui ho partecipato, il posto che ho visto e di cui posso finalmente parlare anch’io.
Ed è lo stesso anche l’accanimento verso un nemico comune, collante dialettico familiarissimo e naturalmente efficace. O la schadenfreude, che non provo solo, come mi voglio raccontare, verso i potenti, verso chi si espone, ma anche verso un qualsiasi altro poveraccio uguale a me che mi passa accanto, perché sapere che qualcosa va storto a qualcuno mi fa tirare un sospiro di sollievo e già stempera ipotetici inciampi in cui mi potrei imbattere io forse un giorno.
Quanto è confortevole il cinismo, penso, che saprà pure di vecchio ora che non tira più, ma che comunque unisce, rende complici, risolve vuoti di conversazione e semplifica le interazioni di una cerchia nei confronti di ciò che le è estraneo.
Ma tutta questa roba radioattiva, spaventosa, è davvero il quotidiano? Il mio? Mi sa di sì, e mi sa pure che non si tratta del contesto. Non è l’ambiente a essere insalubre e non ci sono bonifiche da fare. Se il divano è ormai zuppo è perché io stessa sono una goccia del blob in espansione. Sono io l’infezione. E posso provare a tenere a freno la melma ma di melma un po’ sono fatta e mi nutro.
E non sono neanche convinta che mi faccia bene riemergere. Perché c’è un approdo dentro questo vortice che mi sembra quasi consolatorio. Così, se guardo ancora più in fondo, se mi faccio coraggio, posso anche riconoscere che non c’è una vera e propria colpa nel male.
C’è invece una predisposizione che aspetta solo di essere vista per farsi addomesticare. Una coordinata genetica che rende più facile fare qualcosa di scorretto rispetto al fare la cosa giusta, e più facile fare del male che fare del bene. Ma perché fare del bene sia così innaturale, complesso, faticoso, boh, io non me lo so spiegare. Eppure è così, ed è una condizione del gioco che dovrei accettare.
E penso a quanto è più istintivo sgomitare, superare, rubare il posto in una fila. Se non cediamo il passo arriviamo prima. Se qualcuno cade noi abbiamo più possibilità di arrivare al traguardo.
Poi però questo male, così facile da infliggere, abbiamo paura di subirlo. E allora ecco che abbiamo inserito, forse artificialmente ma a me basta, una specie di soddisfazione nel bene e nel giusto, gli abbiamo dato la forma di una coccardina appuntata, di una pacca sulla spalla che dà sollievo e aiuta a respirare.
E anche se dentro c’è solo la voglia di scansare la colpa o il timore, anche se si accompagna al compiacimento o anticipa una recriminazione, quell’io io io che non se ne va e che non mi riesco a scollare di dosso può avere un suo effetto benefico.
E mi viene da dire che quella melma che ci pulsa dentro e che in qualche modo ci muove dobbiamo forse sforzarci di guardarla e dichiararla, per ricordarci a cosa serve: a schivarne di ulteriore, di più grave, di più universale. Non per condannarci ma per accettarci e correggerci, forse.
Ecco, io così uno straccio di lieto fine mi sembra di averlo portato a casa. Spero ti basti.
Visto letto sentito 🙈🙉🙊
Wanna
In una costante celebrazione del brutto in tv, non potevo farmi mancare la docuserie Netflix su Wanna Marchi. L’ho vista appena è uscita e forse l’hai vista anche tu ma oggi qui mi sembra ci stia bene.
Perché c’è la prevaricazione, la gogna, i forti e i deboli che nel tempo si alternano nei propri ruoli. E c’è il male che non si sa se viene dalla tv o lì semplicemente approda.
Io l’ho trovata una docuserie fatta da dio, forse in linea con la marea di operazioni nostalgia a cui stiamo assistendo, ma attuale, ancora molto affine al presente. Sono cambiati il linguaggio, i look, il mezzo, ma di Wanna in giro è ancora pieno dappertutto. E, come Wanna, le nuove Wanna di adesso vengono celebrate e tenute vicine fino a quando non si decide di smascherarle e metterle alla gogna. Solo così diventano finalmente il male, e solo loro fino a quando non se ne trovano di nuove.
La cosa bella è come questo male venga mostrato senza il filtro di un pentimento, e come questa assenza ci consenta di guardare davvero, di vivisezionare, in qualche modo anche di accettare, grazie al disinnesco che ci regalano giustizia e punizione.
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
Du spicci
Non si leva mai, dà un’allure da stronza e non costa nulla. Oggi, coincidenza, te lo consiglio.
Wycon Lip Loop Mousse Lipstick (Red Stones) - € 9,90
Saluti
Questa newsletter è una mia velleità che oggi è consapevole di non aver portato allegria nella tua casella di posta. Mandala a qualcuno a cui vuoi rovinare la domenica e consigliala a gente che ti sembra troppo più felice di te.