Io spesso sì. Negli ultimi giorni ad esempio mi sento un po’ in colpa per aver abbracciato quel Drewbarrymorismo di cui ti ho parlato, proprio ora che il mondo è al tracollo. Così come mi sono sentita un po’ in colpa nel comprare un paio di scarpe bellissime e costosissime mentre ovunque si discuteva di razionamento energetico.
Poi oggi proprio non ne parliamo: è Pasqua, giorno che potrà anche mettere allegria ma che alla fin fine sta lì a rimediare a una delle nostre grandi colpe.
Starai pensando che non mi so neanche godere un po’ di buonumore e, sì, un po’ è così. Solo un po’ però, perché questo senso di colpa non mi sta frenando, non sta censurando i miei comportamenti, non sta affondando la mia voglia di essere leggera.
Il consiglio prezioso
Shake it off: Concediti due minuti al giorno di sguardo contrito.
Riflettevo
Io in questo senso di colpa, per natura, un po’ galleggio e un po’ ci sguazzo. E alle volte sembra quasi sia proprio lui il sostegno, la spinta di Archimede che tiene fermo e assicura in superficie il comportamento che lo scatena.
Certo, smussa e limita forse un briciolo il piacere in sé, non mi lascia godere a lungo delle cose ma incredibilmente, così facendo, genera una nuova voglia di gioia, una nuova voglia di buonumore, una nuova voglia di leggerezza. Che io prontamente soddisfo, scatenando poi un nuovo senso di colpa e così a catena, in un loop che potrebbe durare in eterno.
Mi succede quando spendo troppo, quando mangio troppo, quando lavoro troppo e non mi resta tempo per gli affetti. Mi succede quando esagero. Mi succede anche quando guardo programmi trash invece di leggere un libro, quando non rispondo subito a un messaggio, quando rimando un impegno, quando parlo a sproposito.
E adesso, a guardarle in fila, mi sembra che tutte queste cose trovino un po’ del loro mordente proprio nel senso di colpa che naturalmente incorporano.
Ti suona? Hai presente quell’elettricità che si prova nel fare una battuta politicamente scorretta? O nel dire quella cosa che non si può dire? Dai, non farmi sentire una merda, l’avrai sentito anche tu il brividino.
E mi stuzzica l’idea che magari sia anche terapeutico e che, forse proprio grazie a questo esercizio, si riesca ad addomesticare un altro tipo di senso di colpa, più strutturale, portante. Quello che ci portiamo dietro come uno zainetto fin dall’infanzia, che spesso associamo a familiari o affetti in generale e che è totalmente ingiustificato. Un senso di colpa legato a situazioni che non cadono e non sono mai cadute realmente sotto il nostro controllo. Una serie di avrei potuto fare di più o di meno o qualcosa di diverso che non ha appigli logici ma che è comunque in grado di martellarci, grazie alla narrazione megalomane che facciamo della nostra vita e che ci pone sempre al centro del mondo, da un lato onnipotenti e dall’altro facili prede dei bronci di chi amiamo.
E questo senso di colpa è una sorta di livello bonus per chi, come me, si trastulla con l’ansia. La sostituisce quando non ci sono scadenze o eventi atti a scatenarla, oppure le fa da spalla, la nutre e la amplifica per tenerla sempre viva e grintosa.
L’indizio chiave che questo tipo di senso di colpa sia un puro esercizio autolesionistico sta nell’assoluta impossibilità di metterlo a tacere. Sta lì, superfluo e imperituro, non si muove e non si sradica.
Ed è questo che lo distingue dal senso di colpa, fisiologico e sano, che si prova quando si commette effettivamente un’azione scorretta o disdicevole.
Che poi, anche in questo caso, non è detto che la colpa sia funzionale a qualcosa. Cioè, anche quando si commette effettivamente un torto, crogiolarsi nella colpa pare non sia utile, perché non consente di andare avanti e agire per cambiare. E questa considerazione somiglia tanto al paradosso del rimuginio, secondo il quale arrovellandoci su un pensiero negativo, magari anche su un senso di colpa verso noi stessi o verso altri, evitiamo di cercare attivamente soluzioni concrete e non elaboriamo mai davvero il nostro torto. Dire “oddio mi sento un po’ in colpa” sembra torturarci ma in realtà ci dà sollievo, distraendoci dal lavorare su noi stessi o, più banalmente, dal chiedere scusa.
Tu sai chiedere scusa? Io ho imparato così bene che ormai lo faccio quasi a caso, sotto forma di tic nervoso. Oppure mi giustifico in anticipo quando nessuno mi sta accusando di nulla.
Così, quando ho scritto a un amico d’infanzia, che non sentivo da almeno 11 anni e che non vedo da molto più tempo, ho subito messo le mani avanti, come se questa distanza l’avessi imposta io o fosse comunque colpa mia. Invece no, non ci siamo sentiti per tutto questo tempo perché la vita questi giochi li fa e non c’è da farsene un cruccio. Insomma non serviva mettere le mani avanti ma in realtà forse ci stava bene, perché il motivo per cui ho deciso di scrivergli ha un po’ a che fare con la colpa. Volevo chiedergli di raccontarmi un suo guilty pleasure e lui mi ha risposto subito, scardinando affabilmente la rubrica.
Guilty Pleasure with Guests
In questa rubrica un amico o un’amica della newsletter mi racconta il suo guilty pleasure. La genesi della rubrica ha dietro una storia interessante che ti racconterò presto. Questa settimana il Guilty Pleasure è di Maurizio.
Maurizio Amendola è uno scrittore e sceneggiatore che vive a Torino. Nella vita, oltre a scrivere, insegna anche scrittura. E mi piace sottolineare il fatto che insegni perché le nostre famiglie sono legate da uno strano incantesimo di insegnamenti incrociati. Mia madre era la sua professoressa di storia e filosofia. Il padre di Maurizio mi ha insegnato la matematica, il fratello mi ha insegnato le parolacce. Al netto di tutto questo garbuglio, Maurizio è una persona bella, da incontrare e rincontrare.
Questo è il suo guilty pleasure.
Guilty Pleasure. Ma togliamo Guilty, parliamo di Pleasure. Che già da piccoli eravamo chierichetti, e pure chi sull’altare non c’era, c’era per osmosi. Basta con la colpa. Accompagnando il mio cugino di secondo grado verso il Vescovo pronto a cresimarlo, la mia mano sulla sua spalla, da buon padrino gli ho sussurrato che credo in Odino, dio della poesia e della magia. Il cuginetto ha gradito. E lui non ha nemmeno affrontato la visione di tutti i film della Marvel Universe, in ordine di uscita da Iron Man in poi. Non ha nemmeno rivisto tre volte le prime quattro stagioni di West Wing, dove Aaron Sorkin ha declinato le cinquanta sfumature di un Presidente degli Stati Uniti pronto a sfidare la crudeltà di Dio. Puro Pleasure. Il mio amico Tobia, in arte _ t _ w _ i _ g _, nel suo romanzo d’esordio Nitrito (Agenzia X) ha dedicato una buona mezza cartella a tutti i nomi delle pornoattrici a cui dedica la sua masturbazione. La prima era Stoya, o forse no, o forse sì. Come biasimarlo. E allora dai. Basta Guilty. Basta colpa. Lascia che sia Pleasure. È il nostro secolo che ce lo chiede. Amen.
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
⬆️ Questa me l’ha mandata Letizia 💘
Du spicci
Giuro che ho visto una mezza stagione.
Benetton - € 89,95
Saluti
Questa newsletter è una mia velleità che ti assolve da tutte le tue colpe e ti augura buona Pasqua.
Questa newsletter mi fa pensare che, se la Pasqua può essere un momento di buoni propositi, allora io voglio sradicarli questi guilty bonus che il solo fatto di esistere ci dà. Grazie della riflessione!
Che bella analisi! Per esperienza suggerisco + pleasure e - guilty.