Venerdì sera in motorino con Marito a un certo punto si sono rotti i freni. Non so cos’è successo di preciso, lui me l’ha pure specificato, credo, in ogni caso l’effetto è stato che il motorino non poteva più frenare. Abbiamo rallentato, poi accostato, parcheggiato, messo la catena e ci siamo diretti verso una fermata del taxi. Senza scomporci, così.
Il consiglio prezioso
You can only kill me once: Accosta, parcheggia e prendi un taxi.
Riflettevo
Io non sono una persona calma, una di quelle che non si lamenta. Passo, fin dall’infanzia, per una drama queen di rilievo. Poi spesso fingo di sdrammatizzare, cerco di fare autoironia, ma comunque non me le faccio scivolare addosso le cose, mai, soprattutto quelle brutte.
Eppure non mi sono scomposta, non ho detto cazzo, potevamo morire, né che sfiga, e neanche perché proprio adesso, di venerdì sera, che siamo pure in ritardo per quello straccio di serata che ci siamo organizzati alla fine di una settimana di lavoro pesante. Non ho detto niente. E neanche Marito si è lamentato. Lui di base mantiene sempre il controllo più di me, ma almeno un commento, un qualsiasi appunto per dei freni che ti abbandonano nel bel mezzo di Porta Maggiore (per i diversamente romani: il peggior inferno di traffico e caos in una città che parte da un livello già molto intenso) me lo sarei aspettato. Invece nulla. Cerchiamo una enjoy, ah non ce ne sono, dai andiamo a prendere un taxi.
Dopo un po’ però tutta quella calma, accettazione o rassegnazione, non ho idea di cosa fosse, ha cominciato a suonarmi strana e, mentre mi avvicinavo agli amici che avrei dovuto incontrare, ho capito che la storia dei freni l’avrei di certo raccontata ma che la parte più interessante della faccenda era l’imperturbabilità con cui l’avevamo affrontata. Come la spiego? E come me la spiego?
Nervi saldi? No, sicuramente non io: sono tesa come una corda di violino h24, anche mentre dormo. Sprezzo del pericolo? Giammai, ho il terrore di qualsiasi mezzo di locomozione e in generale affronto la vita come se fossi la protagonista di Final Destination. Scarso attaccamento alla vita? No, no, per quanto faccia schifo resta sempre più forte il terrore della morte.
Ecco, la morte, che parola grossa da scrivere adesso, penso. Eppure è quello che stiamo rischiando in tutti i modi, tutti i giorni, da anni. Martellati dalla narrazione di una spada di Damocle che assume le forme più bizzarre, virus, bombe atomiche, estinzione, siccità, alluvioni, freddo. E anche sui tempi ne abbiamo per tutti i gusti, brevi, medi o lunghi, si va da countdown estenuanti a potenziali battiti di ciglia. Cioè, dobbiamo morire, s’è capito. Non prima o poi, ma prima, prima del giusto, prima di quando ci toccherebbe, adesso o domani, sì, riditemelo un’altra volta.
E l’unica consolazione che ci viene concessa è un altro coro costante che ci incoraggia a guardare al passato, a quanto era tutto più semplice e morbido. E quindi via di serie, film, gadget che celebrano la nostra infanzia, quella che dovrebbe essere perduta, quindi almeno metabolizzata, e invece è sempre qua davanti agli occhi. A consolarci? Col cazzo. A tormentarci e torturarci perché non c’è più.
Lì per lì sembrava un fenomeno del momento, un’ondata temporanea destinata ad affievolirsi, invece è diventato un meccanismo portante dell’intrattenimento. Quelle che prima venivano chiamate meteore sono adesso bandiere, quasi una sorta di rivendicazione generazionale. E non si tratta di storie o personaggi che resistono al tempo, tutt’altro. È piuttosto una riesumazione dolorosa che mina quel briciolo di stabilità che riusciamo inspiegabilmente a strappare coi denti alla vita.
Ma poi chi è che le rivuole quell’infanzia e quell’epoca? Anche lì c’erano i disastri, la minaccia di radiazioni, le guerre che scoppiavano a caso e altri deliri che non mi ricordo, perché non me li mostrano più e quindi li ho accantonati, mentre non mi devo perdere neanche un frammento del bello, del sogno soffice soffice di un’esistenza che, appunto sognata, a oggi mi sembra il palese frutto di una contraffazione.
E se questa specie di truffa mi dovrebbe far guardare al passato con nostalgia e al presente con orrore, purtroppo l’orrore ormai è così tanto e così presente che mi ha stancato, e ho esaurito le risorse per reagire razionalmente.
Quindi mi fermo, accosto, parcheggio e prendo un taxi. Nel frattempo al senato e alla camera sono stati eletti La Russa e Fontana. Ah davvero? Sì, vabbè, non c’è problema tanto tra poco muoio.
Visto letto sentito 🙈🙉🙊
Dahmer
A proposito di paura, di tempi passati che non erano poi così rosei e di assuefazione all’orrore, sto guardando la serie Dahmer su Netflix. Io, e so che non suona benissimo, ho una sorta di passione per i serial killer. Mi interessa capire e capendo mi sembra di esorcizzare, di attivare una specie di autodifesa dai mostri.
La serie non è di quelle che ti tengono incollata a maratone intense. Però questa è un po’ la forza secondo me. Perché puoi somministrarti paura e nausea a piccole dosi, senza avvertire schiavitù, dipendenza e nevrosi.
Forse anche in questo caso, in maniera un po’ contorta, si solletica lo stesso neurone che viene solleticato con la nostalgia. Però almeno qui è in mostra lo storto e lo sbagliato di un’epoca che, tutto sommato, è un bene non ci sia più. Perché dentro la serie non c’è solo il serial killer ma anche l’evidenza di una sfilza di ingiustizie sociali che erano la norma, un contesto in cui a un serial killer veniva data non solo la forma ma anche un agevole campo d’azione.
Poi sicuramente dovrei riflettere sulle proteste dei familiari delle vittime e in particolare su quanto esibire un terrore che è stata tragedia vera e vissuta non sia un’operazione neutra. Ma la verità è che non mi sento in grado di farlo e devo ammettere che questa sensibilità mi manca, probabilmente grazie a uno schermo che difende e diffonde.
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
Du spicci
È ancora presto per i pigiami?
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Saluti
Questa newsletter è una mia velleità letteralmente senza freni. Accelera la sua diffusione suggerendola in giro.
Ma che amore sei da bambina? <3