Può ripetere?
Questa newsletter è una mia velleità e le velleità, si sa, possono essere tanto tanto labili.
Questa settimana ci sono un po’ più di parolacce. Non è colpa mia né della mia stanchezza, lo capirai leggendo. Però ti avverto perché se sei sensibile al turpiloquio la newsletter di oggi forse non fa per te. La prossima settimana rimedio, giuro.
E sempre questa settimana sono in grande ritardo. Qualcuno mi ha scritto per farmelo notare e la cosa mi rende sì colpevole ma sostanzialmente entusiasta. Vuol dire che a qualcuno addirittura manco.
Che è successo? Niente di particolare: ho avuto tanto lavoro e poca energia e nel weekend ho pensato di staccare la spina completamente.
Ho fatto bene? Nì.
Sabato sono stata a pranzo fuori con un’amica. C’era un vento mortale, la gente usava le mascherine a mo’ di benda da pirata e io mi sentivo un pesce fuor d’acqua a causa del mio isolamento che mi ha reso ormai socialmente daltonica.
Però avevo capelli stupendi, ero vestita casual ma con l’effetto di chi ha indossato le prime cose chic trovate nell’armadio (e invece nella scelta avevo investito una mattinata e una bella dose di nervi). Il makeup leggero pare mi donasse una bella luce: la mia amica (matta) continuava a ripetermi “Sembri Melania Trump”.
In questa situazione, che già ricorda le dinamiche di un sogno pigro, commetto un grande errore: abbasso la guardia. Si avvicina una signora per chiedermi una moneta e io, sempre un po’ in paranoia da covid, cerco di imporre una distanza fisica attraverso quella emotiva. Lei mi accusa subito di misoginia (“Hai dato una moneta a un uomo, perché non la dai a me? Ce l’hai con le donne?”) e poi urlando mi dà della vacca. Troia. Zoccola. Bombardona. Puttana. Zozza.
Mentre penso che, sì, ho fatto proprio bene a uscire, non proferisco parola. La gente agli altri tavoli ci guarda, mormora, si agita. Io resto immobile con la mia amica che insiste “davvero sembri Melania Trump”, poi cambia idea e googla “bombardona”.
E questa è più o meno l’atmosfera dei giorni che ho trascorso. Sono capitate cose anche più carine ma tutte comunque un po’ confuse o disordinate, con tangenti inaspettate e trame sospese.
Ecco tutto, scusa il ritardo.
Il consiglio prezioso
Prontezza: Senza tentennamenti, dai subito una moneta a chiunque te la chieda.
Riflettevo
A questa confusione io dialetticamente sto reagendo con lo sproloquio, ammorbando chiunque mi capiti a tiro con discorsi campati in aria che non si sa da dove partono né se mai arriveranno a conclusione.
Ho perso incisività e dono della sintesi e mi cullo in dissertazioni senza rigore e senza remore. Non mi pongo neanche più il problema di annoiare l’interlocutore arrivando, come è successo sempre sabato con un’altra amica, a costringere chi mi ascolta a stare al freddo e al gelo per ore. Ma ti pare? Che modi sono?
E io sono una persona che abitualmente questi problemi se li pone. O comunque ho sempre paura di disturbare. Mi scuso spesso, forse troppo spesso. Anche quando non serve. Mi sono ritrovata in molte riunioni a dire “scusate se dico la mia” come se fossi passata lì per caso o avessi origliato la conversazione da dietro una pianta, quando in realtà ero stata invitata alla riunione, o addirittura l’avevo organizzata io, proprio per esprimere la mia opinione o dare una mia valutazione.
E sembra capiti a molti, o meglio a molte. Sembra infatti che le donne abbiano la tendenza a scusarsi più degli uomini nel lavoro e pare che questo chiedere scusa troppo spesso sia dannosissimo.
Non lo dico io, c’è anzi ampio dibattito sull’argomento. Nell’episodio “Sorry Not Sorry” del podcast Women at Work della Harvard Business Review l’argomento viene affrontato da più punti di vista. La tesi è che scusarsi prima di ogni intervento durante una riunione non trasmetta un messaggio di forza né di competenza. È un modo anzi per sminuire te stessa, la tua presenza e il tuo contributo.
Ci si scusa per dimostrare rispetto, per contraddire, per avanzare una richiesta o per far passare in modo più morbido un messaggio difficile. In realtà l’effetto sembra sia controproducente: ci si rimette in termini di credibilità, si indebolisce l’impatto del messaggio, si perde la stima dell’interlocutore.
Oltre al semplice “scusa” ci sono poi altre espressioni che sminuiscono i nostri messaggi, come il “mi chiedevo”, “magari dico una sciocchezza”, “non sono esperta in materia” che si usano (e uso) per evitare conflitti o smentite. E trovo meraviglioso che ci sia un plug-in di Gmail che argina il problema avvertendoti quando usi espressioni di questo tipo nelle e-mail. Geniale no?
Se tutte queste riflessioni non fossero bastate c’è anche la sociologa Maja Jovanovic che quasi ci cazzia qui.
Ma perché le donne sono più propense degli uomini a scusarsi? Prova a spiegarcelo lo studio Why women apologize more than men del 2010 di Karina Schumann e Michael Ross. Pare che la differenza non sia dovuta alla minore volontà di scusarsi, bensì alla diversa interpretazione circa la gravità degli errori.
Uomini e donne si scusano nella stessa misura quando riconoscono di aver fatto un torto a qualcuno. Ma gli uomini percepiscono più raramente il valore offensivo di un comportamento, che sia il loro o quello che loro subiscono. Insomma la differenza non sta nello scusarsi ma nell’identificare se ci sia stata o meno una trasgressione.
Come se fosse lunedì
Il proposito che ho rimandato la settimana scorsa
Invece di scusarmi per averti mandato la newsletter in ritardo ti ringrazio per avermi aspettato.
Visto letto sentito 🙈🙉🙊
Rebecca di Alfred Hitchcock
Domenica ho visto un classicone in bianco e nero, Rebecca. È un film di Hitchcock del 1940 che casca proprio a fagiolo perché è la storia di una donna che non fa altro che chiedere scusa a tutti per aver sposato un ricco vedovo.
Il film è meraviglioso e la protagonista bravissima nel farti incazzare. Per due ore non ho fatto altro che urlare “REAGISCI!” e “SMETTILA DI SCUSARTI, CAZZO!”, ma io interagisco sempre molto con i protagonisti dei film.
Rebecca è un thriller psicologico tratto dall’omonimo romanzo gotico di Daphne du Maurier del 1938. È stato il primo progetto americano di Hitchcock e ha vinto l’Oscar come miglior film.
Di recente è uscito su Netflix un remake che non dovrebbe essere all’altezza, anzi se ne parla maluccio, quindi guardati l’originale, possibilmente di domenica pomeriggio con copertina e tisana (che io ho sostituito con un bustone XXL di patatine fritte).
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
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Du spicci
Sto a ruota di tute.
Uniqlo - €34,90
Guilty Pleasure
Ti avevo avvertito che questa newsletter sarebbe stata un po’ scurrile. E riesce a esserlo anche se si parla della mia passione per il Natale.
Lo so, manca un mese ma io non penso ad altro già da ottobre e quindi inizio a fantasticare sul cibo, sui regali, sui pigiama tartan ma soprattutto sulle canzoni natalizie che propino a mio marito come Cura Ludovico al risveglio del 25.
Vuole il caso che la mia canzone di Natale preferita sia Fairytale of New York dei Pogues, che quest’anno è stata censurata da BBC Radio 1 perché stracolma di parolacce e linguaggio offensivo.
I versi incriminati sono:
You're a bum
You're a punk
You're an old slut on junk
Lying there almost dead on a drip in that bed
You scumbag, you maggot
You cheap lousy faggot
Happy Christmas your arse
I pray God it's our last
Pesantina sì. E infatti al momento le radio britanniche trasmettono due diverse versioni della canzone: BBC Radio 2, che ha un pubblico meno giovane, trasmette la versione integrale mentre BBC Radio 1 ha offuscato la parola ”slut” e modificato in “You’re cheap and you’re haggard” il verso “You cheap lousy faggot”.
Che i versi siano forti e offensivi è vero e infatti ci sono state diverse polemiche negli anni. Ma, come spiega l’autore Shane MacGowan, la canzone racconta una storia e i protagonisti della storia sono persone che avrebbero sicuramente usato questo linguaggio. La parola “faggot” ad esempio viene detta da una donna disperata di una certa generazione in un certo momento storico. Non è una bella persona ed è arrabbiata. Il suo modo di esprimersi è accurato e autentico.
E io mi trovo d’accordo con lui. Pur condannando qualsiasi espressione razzista mi aspetto che in un film sul nazismo il cattivo pronunci parole razziste. Ecco tutto.
Ma si tratta sicuramente di questioni complesse. E ne stiamo affrontando sempre più spesso. È un bene perché vuol dire che certi temi sono all’ordine del giorno ed è giusto che si tratti il tutto a un livello così profondo da rendere la dialettica tremendamente complicata.
Difficile anche quando si censurano ora cose dette in un’epoca in cui queste cose si potevano dire. Non so prendere posizione in merito. Sono d’accordo sull’arginare modelli e linguaggi offensivi o che rispecchiano valori nocivi. Ma andare a ritroso condannando prodotti culturali nati quando non era stato raggiunto questo livello di consapevolezza mi lascia perplessa.
Anche perché spesso vedendo quei film o ascoltando quelle canzoni possiamo anche fare un’opera di celebrazione dei progressi raggiunti. Quando ad esempio ho rivisto Indovina chi viene a cena lo scorso anno mi è sembrato raggelante, sensazione che avevo provato in modo molto più blando 20 anni fa, alla prima visione. Io non ero ancora veramente in grado di provare quel disagio: la società non mi aveva ancora reso così civile.
Un caso eclatante è stato sicuramente Via col vento, rimosso dal catalogo HBO dopo che John Ridley (premio Oscar per 12 anni schiavo), sulla scia del movimento Black Lives Matter, lo aveva definito un film che nega gli orrori della schiavitù e perpetra i più dolorosi stereotipi razzisti. HBO ha poi reinserito il film sulla piattaforma con l’aggiunta di due filmati che contestualizzano e condannano la visione nostalgica e negazionista di un’epoca e di una parte degli Stati Uniti.
Tutto molto complicato. Ma trovo giusto e bello che lo sia.
Saluti
Questa newsletter è una velleità e comincia a essere anche una piccola soddisfazione. Lei cercherà di essere più puntuale ma tu non smettere di volerle bene.