Scusami se non ti ho scritto la settimana scorsa, sono stata al mare a Crotone. Ho dormito in quella che è la ricostruzione storica della mia cameretta, ho rivisto alcune spiagge dell’infanzia, ricordato alcuni aneddoti di scuola e rivisto persone che non vedevo da anni. Purtroppo la maggior parte di queste persone non mi ha neanche riconosciuta ed è stato un po’ imbarazzante dovermi giustificare con Claudia, che avevo invitato per un tour nella mia precedente esistenza e a cui ho invece dovuto giurare per tutto il tempo che davvero ero nata e cresciuta lì. Le cose si sono fatte davvero strane quando la mamma di una mia compagna di danza si è fiondata proprio addosso a Claudia per salutarla e chiederle se non fosse (lei, sì, Claudia) l’amica di infanzia della figlia.
Il consiglio prezioso
Devil in disguise: Cambiare è il contrario di nascondersi.
Riflettevo
Il fatto che non mi riconoscesse nessuno mi è suonato strano. Perché io, almeno una volta l’anno, in quella città ci torno, quindi un po’ mi ha stupito essere stata cancellata all’improvviso. Ma non ci sono rimasta neanche troppo male, perché so di non aver mai fatto molto per restare ben inserita in quel contesto. Di solito quando sto lì non mi muovo mai da sola, frequento esclusivamente la mia famiglia e, quando sono in libera uscita, mi dedico più che altro a escursioni fuori città per assecondare le spinte esplorative di Marito.
A dirla tutta, questo anonimato mi ha messo in un certo senso a mio agio, perché anch’io faccio un po’ fatica a riconoscermi e non mi oriento granché bene né tra lidi e locali che cambiano, né tra i miei pensieri che invece sembrano ogni volta tornare indietro.
La sensazione che provo più di frequente è quella di un vestito che mi sta stretto. Un cliché, me ne rendo conto, ma in qualche modo anche un’interpretazione letterale della realtà, perché spesso quando sono lì mi sottopongo alla stupida tortura di provare un costume o una maglietta dei tempi d’oro ed ecco, mi stanno effettivamente stretti.
E sì, probabilmente il fatto che proprio mentre ero a Crotone si diffondesse la notizia del vestito iconico di Marilyn Monroe, rovinato da Kim Kardashian al Met Gala, avrà influito sulla scelta della metafora. Ma forse, in qualche modo, mi ha anche dimostrato che quello del vestito stretto non è poi così tanto un cliché.
Quando avevo visto Kim Kardashian costretta in quel vestito e costretta anche a cambiarsi dopo pochi minuti per indossare una replica di quel vestito, mi ero fatta poche domande e mi ero anche sentita vicina a chi considerava una bestemmia l’idea di poter incarnare la Marilyn Monroe dei nostri tempi. Marilyn non si tocca, ci siamo detti, è Marilyn.
Però poi avevo letto un articolo che in due specifiche righe mi aveva aperto un po’ un mondo. Perché la Kardashian, con tutto il fastidio che può suscitare per il modello estetico, di business e di vita che ha adottato, rappresenta una donna di successo, che cavalca gli scandali senza mai farsi travolgere, e che soprattutto sceglie gli uomini con cui stare, allontanando quelli che non funzionano e sopravvivendo loro con fierezza.
Marilyn era più sexy, era più elegante, iconica, più misteriosa, più affascinante e tragica, va bene. Ma la Kardashian vince in vita rispetto a lei, e secondo me non è poco. La Kardashian mercifica tutto ma non si fa mercificare da nessuno e per questo vince nel presente.
E mi fa quasi piacere che il presente riesca a strappare il vestito con il quale Marilyn aveva cantato Happy Birthday Mr President all’uomo più potente del mondo, per poi morire dopo circa due mesi, da sola, in un letto, imbottita di antidepressivi. Perché quel vestito forse sarà andato stretto anche a lei, a quella dea che si è conquistata l’immortalità ma la cui vita, quella vera, è finita tanto male. Mi chiedo allora se, nel tenerci così tanto alla tutela di questo vestito, siamo in grado anche di capire cosa rappresenti, di cosa sia il simbolo.
Io una risposta non riesco ancora a darmela e per questo preferisco ritornare ai miei di vestiti stretti, quelli che devo lasciare andare perché non mi appartengono più. E nel farlo mi rendo conto che la voglia di conservarli e insieme la paura di rovinarli è giusto che si confrontino anche con la necessità di strapparli, eliminarli, in una cupio dissolvi della mia storia, della mia evoluzione e di tutte quelle bandierine messe a casaccio su un percorso che mi ha portato altrove. Perché se non sto attenta, se cado nella tentazione di ripercorrere a ritroso quelle bandierine, potrei facilmente farmi trascinare indietro, con la scusa di voler interpretare i simboli, rileggerli e risolverli.
Ma cosa c’è da risolvere poi? Cos’è che bisogna risolvere nel passato? E possiamo davvero ritenerlo passato se si riaffaccia prepotente e torna da solo a invadere presente e futuro? Perché è presente, non passato, il giorno in cui l’aborto ha smesso di essere un diritto costituzionale in quella che sempre più pigramente definiamo la più grande democrazia al mondo. Ed è tremendamente presente il giorno in cui quell’unica donna che ha davvero un peso nella politica italiana pronuncia un discorso osceno e spaventoso. È oggi, è il presente, anche se sembra provenire dal passato.
Allora è il presente a dover essere risolto, nella sua difficoltà di non superare quel passato che sembra archiviato e che invece riesce a travolgere tutto quello che ormai dovrebbe essere assodato. Corsi e ricorsi storici, mi dirai. Sì, ne avevamo già fatto il pieno con guerra e peste e carestia, poteva bastare, no?
E allora non solo è ok se non mi riconosco, nel passato e nel presente, ma penso che possa farmi anche bene non essere riconosciuta. Così sorrido di gusto quando dico che no, signora, in realtà ero io la compagna di danza di sua figlia, mi saluti pure Floriana. E quella mi risponde certo, volentieri, sei Silvia, giusto?
No, diamine, sono Maria.
Visto letto sentito 🙈🙉🙊
Keep Sweet: Pray and Obey
Ti ricordi Wild Wild Country? La docuserie su Osho che ci aveva fatto perdere la testa? Ecco, ho visto un’altra docuserie che parla di un’altra comunità di pazzi invasati negli Stati Uniti che, da un lato, mi ha fatto fare pace con l’idea che degli Stati Uniti non sarò mai in grado di capire nulla, dall’altro mi ha convinto che qualsiasi distopia spaventosa è già stata superata dalla realtà più e più volte.
Perché, se The Handmaid’s Tale è una storia di finzione raccapricciante, Keep Sweet è una storia vera che parla sostanzialmente della stessa cosa. Di donne coperte dalla testa ai piedi, vestite e pettinate tutte allo stesso modo, scambiate come merci e usate dagli uomini come bestie da riproduzione.
Il contesto è quello della Chiesa fondamentalista di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Sì, non stupisce neanche me l’idea che religione e precetti spirituali possano sconfinare in uno scenario horror.
Quello che mi stupisce, oltre alla lunghezza del nome scelto, è il fatto che migliaia di persone possano subire e commettere atti mostruosi, senza che il mondo fuori se ne curi. E poi, anche qui, mi stupisce la coordinata temporale. Perché la comunità di mormoni dello Utah, oggetto di questa docuserie, vive tuttora così: il loro “profeta” è in carcere ma è tuttora considerato il profeta e queste donne si vestono ancora così, si pettinano ancora così, vivono ancora così.
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa (oggi powered by Francesco, mio fratello 💞)
Du spicci
Non è un banalissimo tarocco, è il generico dei gelati.
Giuro, mi fa volare.
Sulla bustina monodose c’è scritto solo e insistentemente “icecream” 😍
Saluti
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