Appena arrivata a Roma, al primo anno di università, un amico più grande mi disse che le prime conoscenze che avrei fatto non sarebbero state quelle giuste, non sarebbero durate nel tempo e non sarebbero diventate legami. Ed effettivamente è stato poi così. Le persone che sono diventate famiglia, e che frequento da decenni ormai, le ho conosciute tutte più tardi, mentre quella ragazza che per senso di responsabilità beveva alcol solo in presenza dei genitori e quell’altra che mi proponeva di entrare nella sua squadra di calcio sono sparite nel nulla e oggi non sono neanche più sicura che siano davvero esistite.
l consiglio prezioso
If you can’t love yourself: Fatti abbracciare sempre da chiunque.
Riflettevo
Eppure a quelle persone io mi ero avvicinata con una speranza, con l’idea di ricominciare da capo, di ricreare un tessuto sociale da zero e di trovare delle affinità con gente che non avevo mai visto prima.
E, a ripercorrere oggi quei primi contatti, mi sembra evidente che mi stavo concentrando più sull’esercizio stesso di avvicinarmi a qualcuno che sulla curiosità e sulla comprensione di chi in concreto avessi di fronte.
Non che fossi assalita dal terrore di restare sola per sempre, ma una piccola paura c’era, quella di non essere apprezzata o capita, quella di restare distante. E ricordo una tensione, una fretta di raccontarmi, di mettere in chiaro chi fossi, di farmi riconoscere per convalidare da un lato l’inizio di una nuova vita e dall’altro il fatto che ne avessi una vecchia alle spalle, che non fossi nata in quel momento, che ci fosse un bagaglio da mostrare per dimostrare chi ero.
E credo sia capitato anche a te di inserirti in ambienti con cui hai poco da spartire e di sentire comunque il bisogno di starci sentendoti a tuo agio, di radicarti in una certa misura per avere qualche riferimento su cui contare. Pensa a un ufficio, a una palestra, a una chat dei genitori, in cui non avresti dovuto mettere piede se avessi ascoltato la tua indole, ma di cui poi ti ritrovi a seguire le coordinate una volta che ti ci trovi dentro.
Ecco, nel mio caso, in attesa di poter costruire qualcosa che mi fosse davvero congeniale, quelle amicizie iniziali, con cui condividevo molto poco, rispondevano al mio bisogno di appartenere a un contesto qualsiasi.
E non è per niente strano se consideri che l’appartenenza è uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano secondo la piramide di Maslow. Questo modello descrive una gerarchia dei bisogni che va da quelli fisici (fisiologici, di sicurezza) a quelli psicologici (appartenenza, stima) per arrivare alla realizzazione personale.
Una cosa che mi sembra interessante è che i bisogni fondamentali li soddisfi e stai bene, quelli sociali e relazionali appena soddisfatti ti chiedono di più. E infatti, anche se ormai ho costruito una mia rete sociale su cui posso fare affidamento e che mi fa sentire nel posto giusto, comunque la voglia di essere accettata è ancora qui che pulsa a ogni occasione.
Così, nei contesti meno intimi, temo spessissimo di non essere abbastanza interessante, simpatica, piacevole. Ed è per questo che vorrei sempre sapere cosa pensa di me chiunque. Ma non potendo mai soddisfare questa ossessione, mi ritrovo quasi sempre a scommettere di essere stata giudicata negativamente, di aver fallito in una prima impressione, di essere risultata antipatica, sgradevole, stupida. E so che non mi aiuta, so che non mi serve, so che non dovrei farmi condizionare dal giudizio degli altri, so persino che io questo giudizio proprio non sono in grado di immaginarmelo.
A quanto pare però succede spesso e succede a molti ed è un processo che si aggrappa alla nostra necessità di avere relazioni, un istinto fortissimo e naturale che è parte fondamentale del nostro successo evolutivo. Perché, non avendo le caratteristiche fisiche di animali predatori (zanne, artigli, un accudimento della prole ben più breve), non avremmo avuto alcuna possibilità di sopravvivenza come specie se non ci fossimo organizzati in piccole comunità.
Così, sentirsi bene all’interno di un qualsiasi gruppo è per noi un elemento di serenità. È per questo motivo che il sentirsi rifiutati fa paura nel profondo e può arrivare in alcuni contesti anche a produrre mostri. Scusa, mi ero ripromessa di lasciare per qualche tempo fuori dalla newsletter le notizie orrende che ci martellano senza sosta, ma poi Leandra Medine Cohen ha descritto il disagio che ha provato nell’inviare, il giorno dopo la strage in Texas, una newsletter sul modo migliore per abbinare una camicia. E questa excusatio non petita io l’ho ricondotta alla sua personale paura di essere giudicata, posto che lei, la fondatrice di Manrepeller (una delle pubblicazioni che mi dava più gioia al mondo), anni fa aveva dovuto abbandonare la sua creazione a seguito di uno sputtanamento mondiale su temi come l’inclusività e il razzismo. Ecco, questo per dirti che anche quando si fanno cose belle, c’è sempre il rischio di fare enormi stronzate, di ricevere per questo giudizi negativi e di arrivare anche a perdere il proprio ruolo all’interno di una comunità.
E così anche questa mia newsletter che leggi ogni domenica, oltre a darmi gioia, porta con sé la paura di non piacere, di sbagliare, di pestare merdoni e di essere rifiutata. È per questo che, quando chiedo a qualcuno di raccontarmi un suo guilty pleasure, metto le mani avanti e tengo conto che potrei non ricevere risposta o che la persona a cui lo chiedo potrebbe non voler in alcun modo essere associata a me e far parte del mio mondo.
Non è successo però con Claudia, l’amica con cui posso abbandonare ogni filtro, che oggi mi ha regalato un guilty pleasure così sincero da farla e farmi commuovere. E allora ecco l’unica cosa che conta davvero, il lato positivo di questa necessità di relazioni, il sollievo che solo un legame profondo può concedere, un legame che consente di guardarsi, riconoscersi, accettarsi.
Guilty Pleasure with Guests
In questa rubrica un amico o un’amica della newsletter mi racconta il suo guilty pleasure. Questa settimana il Guilty Pleasure è di Claudia Mancinelli.
Claudia mi ha salvato la vita più di una volta con la sua naturale propensione a rilasciare nell’aria felicità anche quando tutto intorno sta andando a rotoli. E la nostra amicizia ha prosperato sulla comune capacità di trasformare compiti elementari in missioni complicatissime, e queste ultime in risate isteriche. Claudia è una redattrice televisiva, si veste come una dea, è un’enciclopedia di pop culture, è tremendamente competitiva al gioco, è un capolavoro di essere umano.
Questo è il suo guilty pleasure.
Ho pensato a lungo prima di scegliere un mio vero guilty pleasure, avevo mille idee tutte molto vaghe perché in realtà nessuna di queste era mai guilty fino in fondo (mi hai chiesto una verità autentica e scomoda). Finché non mi è venuta in mente una citazione tratta da Mai stata baciata (film che è esso stesso un guilty pleasure) ed è la seguente: “Una volta qualcuno mi disse che per scrivere bene, devi scrivere quello che sai” (Josie Geller - Drew Barrymore).
Quindi eccomi qui a fare una seduta di autoanalisi più che una confessione, il famoso uso privato di mezzo pubblico.
Nelle mie cento vite, ho attraversato anche un periodo indie-hipster, ho frequentato locali e compagnie di un certo tipo, ho indossato t-shirt American Apparel, Dr Martens e chiodi di pelle, e soprattutto ho ascoltato quella musica lì, che oggi nelle playlist di Spotify viene racchiusa nelle varie INDIE 2000s. Black Keys, Strokes, Arctic Monkeys, Black Lips, Animal Collective, Cut Copy, Phoenix, Hot Chip, MGMT, Drums, xx, Yeah Yeah Yeahs, Metronomy, Editors, Noah and the Whale ecc.
Filo conduttore di tutta l’operazione il disagio. Non mi sono mai sentita davvero bene in quei locali, con quelle persone sempre più cool di me, me ne stavo zitta e in silenzio sperando che nessuno si accorgesse della truffa che ero.
Mi capita adesso, a distanza di 10 anni (un guilty pleasure che mi concedo molto di rado e in base a determinate condizioni psicofisiche), di immergermi in quelle playlist, come fossi in apnea.
Ricordo le parole delle canzoni a memoria, mi piacciono tantissimo quelle melodie, talvolta così cheesy, ma allo stesso tempo provo un senso di vergogna profondo, ho il terrore di essere scoperta al grido di “non ne hai mai capito niente di questa musica, non eri una di noi”.
A quel punto mi sale un senso di tenerezza profonda verso la me stessa che ero, troppo piccola e confusa, e provo un sollievo enorme se penso a come sono oggi, circondata e amata da amici con cui posso finalmente essere me stessa senza mai sentirmi in colpa o vergognarmi (tu per prima❤️).
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
Du spicci
Quanto fa caldo?
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Saluti
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