Ma alla fine che c’era dentro?
Questa newsletter è una mia velleità che alle volte ha paura di rovistare.
Ci sono cose che si guardano o si vivono con l’ansia di sapere come andranno a finire. E mentre le guardi o le vivi ti scordi che il piacere dovrebbe stare lì, nel guardarle o viverle, e lo scopo si trasforma invece nel volerle concludere, nel sapere se hanno senso, nello scoprire la soluzione al più presto, nel tagliare tutti i tempi morti.
Ora, ad esempio, sono quasi due anni che facciamo sacrifici e ci adattiamo a una vita strana mentre aspettiamo che la vita smetta di essere strana, che torni a essere piena, completa, e che il tempo ricominci ad avere un senso.
E, mentre aspettiamo, ci diciamo che vale la pena sopportare l’attesa, perché avremo modo di recuperare, riusciremo a vedere come va a finire.
E io che sono fan delle conclusioni, io che non mi godo nessun inizio di nessun film perché ho bisogno di sapere immediatamente, fin dal principio, perché quel personaggio si comporta in quel modo strano o cosa significa quel non detto in quel dialogo, mi sto chiedendo oggi se le cose poi finiscono davvero.
Se non ci troviamo piuttosto sempre a subire un’evoluzione più che ad assistere a una conclusione. O se la fine, quando c’è, quando è già stabilito nelle regole che ci sia, non perda comunque valore nel tempo e sbiadisca fino a sparire nei nostri ricordi. E allora, se quella fine non ce la ricordiamo più, vuol dire che in un certo senso non c’è mai stata. C’è stato l’inizio, e anche quello ce lo ricordiamo poco, ma soprattutto c’è stato il durante, il mentre.
Perché in fondo è l’arco che resta, o tu che lo percorrevi, non l’episodio pilota né quello conclusivo. Quelli invecchiano sempre male, e allora forse è normale avere un po’ di timore nel riguardarli.
Il consiglio prezioso
There’s no place like: quello in cui ti trovi adesso.
No davvero, che cosa c’era dentro?
Nei giorni scorsi sono stata inserita in una chat di gruppo su facebook in cui si organizzava una cena reunion della mia classe del liceo.
E il mio organismo ha salutato questo evento con una gioiosa tachicardia, un vivace affanno e un lieto tremolio delle mani. Insomma ha festeggiato col panico.
Mi sono agitata, sì, mi sono agitata parecchio. Ma solo all’inizio in realtà. Poi tutto è filato liscio e ho interagito come avrei interagito su qualsiasi chat di gruppo, scrivendo cose un po’ sceme ma divertenti. Ah, ecco, io mi trovo divertente, questo forse avrei dovuto confessartelo già da un po’.
Quindi non c’è stato nessun dramma: non potrò partecipare alla cena, perché sarò a Roma durante le feste, ma riaprire quel baule di persone che non vedo e non sento da circa vent’anni non è stato così traumatico come mi aspettavo. Anzi, mi ha fatto piacere, mi ha incuriosito un po’ e mi ha fatto anche ridere: in particolare le cose che scrivevo io nella chat mi facevano ridere, anche questo mi capita spesso, mi spiace che tu lo stia scoprendo così.
Ma perché quella paura iniziale? Perché il panico? C’è qualcosa di irrisolto con qualcuno? Non credo e, se anche fosse, non me lo ricordo, quindi chi se ne frega, non ha più importanza per nessuno.
Eppure c’è qualcuno di loro che proprio non ho voglia di rivedere. C’è, sì, e sono io. Non voglio rivedere la me del liceo, ecco l’incontro che mi terrorizza.
E non perché abbia un passato particolarmente doloroso, ero abbastanza popolare, facevo le mie cose, la mia vita scorreva come deve scorrere la vita di un’adolescente. Però, dopo tutti questi anni, sono cambiata. Non sono solo cresciuta, sono proprio cambiata, credo, e questo cambiamento è stato possibile solo perché ero lontana. Ma se mi riavvicino siamo sicuri che resto come sono o invece rischio di tornare indietro?
Ho paura del revertigo, un termine coniato in How I met your mother per indicare il comportamento che una persona assume quando si ritrova vicino a persone del proprio passato. E a me non deve succedere per niente al mondo, perché sai quante newsletter dovrei scriverti poi per metabolizzare l’esperienza?
La me di allora è un capitolo chiuso, e tale deve restare. Non mi ricordo quando si è concluso e come. Però è successo e, a dirla tutta, questa conclusione l’avevo anche attesa parecchio.
Visto letto sentito 🙈🙉🙊
L’anno della marmotta - Blackie Edizioni
Geni.
Dai, dentro lo zainetto, che c’era?
Riaprire certi capitoli richiede cura e tempo. Perché una cosa è osservare delle belle immagini in una vetrinetta ordinata, un’altra è infilare la testa dentro un sacco e rovistare con poca aria e scarsa luce a disposizione. Per cui, se hai fatto l’errore di buttare queste immagini alla rinfusa dentro a un sacco, adesso devi darti il tempo di riorganizzarle, ricatalogarle e magari sorridere di quelli che sai essere solo ricordi, non per forza coincidenti con quanto è realmente accaduto.
Secondo me, tra l’altro, quella distanza tra ricordo e realtà è da preservare, e bisognerebbe evitare di trovarsi faccia a faccia con qualcuno che ti dice che le cose non sono andate come le ricordi tu, che quel giorno magari tu neanche c’eri, te l’hanno solo raccontato.
È quello che può succedere nelle reunion, insieme all’orrore di vedersi invecchiati attraverso le rughe degli altri. E quest’anno era già bastata la reunion di Friends, che io ho schivato per paura di soffrire, e invece no, ecco che, oltre a quella del liceo, arriva anche Sex and the City, senza Samantha, come se non facesse già abbastanza male.
Ma secondo te è una questione di nostalgia? Non lo so, ne abbiamo già parlato nel Guilty Pleasure di una delle newsletter più tristi che ti abbia mai inviato:
In ogni caso no, non credo sia la nostalgia il tema. Il tema è il tempo. Gli inizi e le fini. Il valore che si dà alle cose quando ci sono, il valore che si dà alla fine delle cose quando ancora non sono finite e il valore che cambia nel tempo quando le cose non ci sono più, quando resistono solo nei tuoi ricordi.
Il valore vero allora è l’attesa di questi eventi e delle loro fini: l’attesa che è una componente necessaria di tutte le storie, l’attesa che è la distanza tra le note, e per questo è un elemento fondamentale di qualsiasi melodia.
Perché, se durante l’attesa il tempo sembra dilatarsi, quando smettiamo di aspettare tutta quell’attesa ci sembra volata via in un soffio.
Ma è anche vero che, mentre aspetti una conclusione, tutto ti sembra un’attesa, e magari non lo è. E lo capisci quando, col passare degli anni, è la fine o la soluzione a perdere valore nella scala dei tuoi ricordi.
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
Du spicci
Non lo so, a me fa tanto Santo Stefano in una casa caldissima.
Benetton - € 119
Non ci credo, non lo sappiamo?
E allora è importante distinguere tra quella che ci sembra un’attesa e quella che invece è l’esperienza stessa. Come nei giochi, dove la soluzione, sebbene sia apparentemente lo scopo, è solo il pretesto per giocare.
E un gioco può anche accompagnarci per anni, diventare un riferimento mitologico della nostra adolescenza, senza lasciarci però alcun ricordo della sua soluzione o del come sia iniziato.
Io del gioco dello zainetto di Ambra, che fino a oggi ti avrei potuto dire “certo, me lo ricordo benissimo”, mi sono accorta che non so invece più nulla: della sua soluzione mi ricordo solo un dizionario di sanscrito, e del suo inizio, facendomi davvero una violenza, ho scoperto che non avevo più alcun ricordo.
Saluti
Questa newsletter è una mia velleità e talvolta un tentativo di guardare indietro. Tu dalle il tempo che merita e gioca con lei condividendola ovunque.