In questo momento ho due facce. O meglio, due diverse metà di una faccia. Martedì mi hanno tolto un dente del giudizio e quindi a sinistra sono gonfia, dolorante e imbronciata, con un angolo di labbro tumefatto e un grosso livido giallo che è spuntato nelle ultime ore. A destra invece sono solo stanca, stufa.
E anche se sono brutte entrambe, queste due mezze facce che si congiungono su un naso già di suo asimmetrico, mi stupisce comunque che non si somiglino neanche un po’ e che addirittura si impegnino a farsi la guerra tra loro. La parte gonfia infatti chiede tempo, mentre quella stanca ha fretta, è impaziente e giudica; giudica l’altra, giudica sé stessa e giudica pure le ulteriori mille facce che si sono nascoste sotto, che c’erano o ci saranno ma che al momento hanno deciso di non farsi vedere.
Il consiglio prezioso
Whatever else it is, it’s gone: Pazienta per il nuovo, prima o poi arriva.
Riflettevo
Normalmente sono abbastanza serena nel cambiare faccia. Magari tu useresti l’espressione “cambiare pelle”, ma a me la pelle sembra una cosa destinata a mandare segnali all’interno, e io il modo di sentire non lo cambio facilmente. Quello che cambio con grande disinvoltura è invece ciò che mostro, il segnale verso l’esterno, e quindi, per come la vedo io, la faccia appunto.
Non che queste lievi mutazioni non abbiano effetto su come vivo, per carità. Le mie facce diverse non le indosso e basta, le vedo allo specchio, a loro mi affeziono e mi aggrappo, e spesso le seguo anche nelle direzioni che decidono di prendere. Guarda ad esempio come me ne basta una mezza tumefatta adesso per convincermi che voglio stare chiusa in casa senza vedere nessuno.
E questa mia condizione ora è un perfetto contrappasso per le ultime settimane, settimane in cui non ti ho scritto perché sono stata molto impegnata e molto triste, ma nelle quali sono comunque riuscita a ritagliarmi un passatempo eccentrico, che in qualche modo ha a che fare con le facce, grazie a una coppia di amici che vive a un passo da casa mia.
Questi amici sono partiti per un paio di settimane e mi hanno chiesto di andare ogni tanto a controllare il loro appartamento mentre erano fuori. Siccome mi sembrava stranissimo entrare dentro casa loro senza preavviso, ho deciso di inviargli una foto tutte le volte che ero lì, come a dire hey sto entrando in casa vostra. Così le tre foto che mi sono fatta in uno specchio che non è il mio, e che considero più sincero di quelli in cui sono abituata a vedermi, ora le guardo con grande tenerezza, sia perché la mia faccia era uniforme ma anche perché ho l’impressione di poter riesaminare dei giorni che mi sono sembrati tutti uguali, tutti cupi, tutti brutti. E a sorpresa no, non sono stati tutti uguali quei giorni. Guarda.
In questo ero triste, sì, abbacchiata, si vede.
Ma in quest’altro stavo provando a reagire, mi sembra, stavo facendo un tentativo.
Qui ho strafatto, senza ombra di dubbio, e la faccia non ha retto alla messa in scena.
Il punto però è che ci stavo provando, stavo cercando la faccia giusta per affrontare un momento tosto. E forse, se non ci fosse stato questo maledetto dente del giudizio a interrompere l’esercizio, io la faccia giusta l’avrei pure trovata, coi miei tempi, ma l’avrei trovata. E invece adesso ne ho due mezze, che non combaciano, da gestire.
Tutto vero, ma devo stare attenta, perché questa nostalgia che provo per le facce di prima, per quelle delle settimane tristi e soprattutto per quelle delle settimane precedenti, in cui invece ero carica di energie, mi sta spingendo in una direzione che non mi piace per niente, quella di riconoscermi per forza e dare un nome a tutto.
E dare un nome alle cose alle volte è controproducente.
Prendi le macine.
Visto che mi sto imbottendo di antibiotici e cortisone, la mattina sono obbligata a fare colazione per accoglierli a stomaco pieno. Ora, non facendo io colazione da quando avevo circa 10 anni, di fronte alla questione sono arrivata un po’ impreparata, come se venissi da un altro pianeta, nello specifico il pianeta in cui vivevo quando avevo 10 anni, e per questo al supermercato per la mia nuova colazione ho comprato i biscotti di quando avevo 10 anni, le macine appunto.
Chiaramente le macine non sono più le macine, perché sono “con più panna” adesso e quindi sono meno buone di prima. Ma io lo so che è tutto così, non me ne faccio un cruccio; le cose cambiano perché non bastano, devono essere più di prima e quindi poi non lo sono più per niente. Ma va bene, questo concetto lo smaltisco, non c’è problema.
La cosa che mi disturba però è che queste macine sono così poco macine che è stato necessario, secondo qualcuno che lavora al mulino bianco, incidere la parola “macine” su ciascun biscotto, per dire, anche loro, hey siamo macine. Ma, se ogni biscotto si sente di dovermi dire che è una macina, a me il sospetto che non lo sia davvero mi pulsa forte in testa, insieme al dolore che già ho.
E mi è chiaro quindi che se serve appiccicarci sopra un nome, perché palesemente senza quel nome la macina, o la faccia, non la riconosci più, allora forse è meglio fermarti un attimo, chiuderti in casa e accettare che in questo momento semplicemente quello che mangi o vedi non ti piace.
Certo, mi sembra un accanimento il fatto che su ogni biscotto ci sia scritto “macine” al plurale, quando invece, a rigor di logica, un biscotto dovrebbe essere una macina, non due, una.
Come la faccia.
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
⬆️ Questa me l’ha mandata Simona 💘
Du spicci
Ti imploro, convincimi a non comprarlo.
Werns - € 99
Saluti
Questa newsletter è una mia velleità, che sta cercando di essere paziente. Dalle una mano suggerendola in giro.
Splendida e stringente la logica del nome ai biscotti! Surreale la tematica delle due facce! Bravissima e commovente!!
Non hai bisogno di quel maiale Maria. Lascia perdere. (Bella bella questa newsletter. Eri mancata)