Negli ultimi giorni ho fatto una serie di cose importanti. Tutte in apnea.
Non che mi sentissi soffocata, anzi, ma non ho avuto tempo di pensare, di elaborare. Devo fare questo, vado. Non si può, manca questo, lo trovo. Questo è sbagliato, riprovo. Ti offro questo, non ho capito. Ti offro questo, ok accetto. Ti parlo di questo, ti dico la mia. Ma no, ho cambiato idea. Devo fare ancora questo, eccomi. Vieni qua, arrivo. Chiamala, non risponde. Richiamala, pronto.
Eppure ho fatto cose importanti, ti dico, frutto di decisioni significative. È che io ci metto un po’ a prendere le decisioni. Poi però quando si tratta di concludere, di metterle in atto, di vivere il momento in cui queste decisioni si concretizzano, un po’ mi cago sotto. E quindi entro in una modalità strana, mi congelo per tutta la durata dell’evento. Poi, quando passa, provo eventualmente a ricordarmelo, a riviverlo. E cerco anche di capirlo, di approfondirlo un po’. Ma lì sul momento, quando tutto sta succedendo, mi sento come se non stessi agendo, come se non fossi io ad agire o come se stessi guardandomi mentre agisco in una scena distante da me.
Ma a cosa penso in quei momenti di apnea? Non lo so, a tutto fuorché a quello che di importante sta accadendo. Penso all’arredamento del posto in cui mi trovo, al perché una battuta mi fa ridere, al perché lo small talk mi riesce difficile, a quello che bisogna fare subito dopo.
Il consiglio prezioso
Buttati: Può essere divertente ogni tanto fingere di essere la tua controfigura.
Riflettevo
Quindi io ci sono (ne sono sicura perché sono io a fare le cose) ma allo stesso tempo è come se non fossi presente, almeno a me stessa. E allora?
E allora credo che questo esserci senza esserci abbia a che fare con la DMN (Default Mode Network), una rete di regioni cerebrali che si attiva quando siamo a riposo o quando stiamo sognando a occhi aperti. Non so fino a che punto c’entri veramente, perché io scavo e scavo ma poi chissà dove sbuco. Ed è spesso Google a condurre il gioco, dandomi risposte. Forse non quelle che cercavo ma comunque risposte.
Insomma la DMN, che è stata scoperta osservando pattern di attività cerebrali su individui che non stavano facendo niente, si pensava fosse attiva solo durante il riposo passivo o la contemplazione interiore, per spegnersi poi invece al momento di compiere azioni dirette verso l’esterno o verso un risultato.
In realtà queste strutture sono anche responsabili di quelle azioni di routine che compiamo col pilota automatico. L’esempio classico (in realtà a me poco familiare ma per te dovrebbe andar bene) è guidare lungo un tragitto che percorriamo di frequente. Tu sei perfettamente in grado di farlo anche se stai pensando a tutt’altro.
E può sembrare che la DMN si attivi proprio perché stai pensando ad altro, visto che l’azione da eseguire non richiede grande concentrazione, ma non è così: non si tratta di un semplice lavoro di background. Nell’attività di questa rete cerebrale risiede infatti la capacità di compiere velocemente delle scelte quando conosciamo bene le regole dell’ambiente o del contesto in cui ci muoviamo. È essenziale per svolgere questo tipo di compiti, per prendere le decisioni istantanee che servono.
La DMN sarebbe poi strettamente legata alla memoria, ai ricordi e alle esperienze del passato. E allo stesso tempo coinvolta in tutti quei momenti in cui pensiamo al futuro. E, se ci pensi, le due cose non sono distanti, anzi. Perché quando noi fantastichiamo sul futuro o facciamo previsioni stiamo sostanzialmente rielaborando e combinando materiale che già abbiamo, ovvero le informazioni acquisite nel passato.
Un po’ come fa Google, che se gli chiedi qualcosa sul cervello che va col pilota automatico si ricorda che il pilota automatico è connesso alla DMN e te la suggerisce. E tu ti fermi a pensare e scrivere di DMN anche se stavi cercando una cosa diversa. Ma lui fa delle previsioni con quello che ha. E poi magari queste previsioni si avverano anche se non sono giuste.
Visto letto sentito 🙈🙉🙊
L’Hotel Azzurro di Stephen Crane
Nei giorni scorsi ho letto un racconto che mi sembra qui calzi a pennello. Perché parla di qualcosa di inevitabile, di qualcuno che involontariamente insegue e compie la propria previsione, e di qualcun altro che agisce in modo deciso e fermo senza aver colto la realtà fino in fondo. E chi questa realtà la capisce non la elabora né verbalizza se non quando è ormai troppo tardi.
È un racconto di Stephen Crane del 1898. Un racconto bellissimo.
La trama è semplice, asciutta, eppure carica allo stesso tempo di una tensione che sale nel lettore per immedesimazione e avvolge invece i protagonisti per il motivo opposto, per la distanza che si crea tra loro e la vicenda a cui partecipano.
Il fascino di questo racconto è che non sei solo tu ad assistere alla vicenda mentre leggi ma anche gli altri, i personaggi, che risultano spettatori insieme a te. C’è l’ineluttabile e c’è la scarsa comprensione. C’è l’andare in automatico.
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
Du spicci
Tiè, facile facile.
Monki - € 20
Guilty Pleasure
Avevo promesso a Franco che il guilty pleasure di oggi sarebbe stato sui surgelati. Purtroppo però ho preso una tangente che mi ha portato da un’altra parte.
Perché pensando al fare una cosa senza essere del tutto presente, all’essere in un posto senza essere in un posto, mi è venuta in mente l’espressione che ho odiato di più al mondo: non luogo.
Era inflazionatissima anni fa e l’abuso che se ne faceva me l’aveva resa tremendamente antipatica. E quando ponevo domande per capire meglio di cosa si trattasse, le risposte erano sempre nebulose, irritanti. All’epoca, del resto, non avevo la grande intimità che ho adesso con Google, quindi le domande le facevo ancora alle persone.
In questo periodo però col non luogo ci ho dovuto fare pace per forza, perché è un continuo chiedermi come vivo gli spazi, o come loro vivono me. Spendo tante energie nel cercare di capire cos’è una piazza vuota, cos’è un bar se non posso consumare niente al suo interno, cos’è un ufficio se non sono obbligata ad andarci, cos’è un negozio se devo entrarci sempre da sola.
E sì, secondo me il non luogo c’entra pure con la DMN. Le somiglia un po’. Perché anche nel non luogo ti senti che stai solo attraversando un posto senza viverlo. Non lo senti tuo. E ti muovi un po’ in automatico, seguendo la segnaletica che ti è familiare perché l’hai già vista e sperimentata mille volte. Probabilmente fantastichi sulle persone che incontri, inventi storie, sei lì ma stai proiettando te e tutto il resto altrove.
Proprio come in un supermercato ad esempio. Ah, scusami solo un secondo. Frà, come in un supermercato, tipo nel reparto surgelati.
Saluti
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