Quando ho iniziato a scriverti avrei proprio dovuto farmi questa domanda: chi sei? Invece no, ti ho scritto e basta. E tu hai assunto tante forme. Prima una forma che mi somigliava, poi una opposta. Poi una a cui volevo somigliare io.
Nel frattempo abbiamo trovato punti in comune ed esperienze affini. Ogni tanto abbiamo messo tra di noi una distanza, emotiva o ideologica, ma abbiamo sempre trovato una mediazione, se non subito, la settimana successiva, venendoci incontro, da brave persone quali siamo.
Alle volte avrei voluto fregarmene della tua opinione, lo ammetto, ed essere meno moderata, più incisiva. Ma temevo un tuo disagio, una tua reazione o un tuo allontanamento. Sì, sarebbe stato tutto più semplice se avessi saputo fin da subito chi eri.
Il consiglio prezioso
Mirror, mirror on the wall: Guardati bene, non ti metti allegria?
Riflettevo
Ma non me lo sono chiesta e non mi sono chiesta neanche chi ero io. Del resto, 40 circa circa all’inizio era quasi un nascondiglio. Avevo scelto l’anonimato che, come quasi tutto nella mia vita, si è poi trasformato in uno psicodramma e ha smesso di funzionare. E le cose che non funzionano io di solito non le riparo subito, confidando piuttosto in un miracolo o in un singolare numero di sparizione.
Così anche la sezione “about” di questa newsletter, quella bio in cui avrei dovuto spiegare in poche righe chi sono, è rimasta lì, da aggiustare, nella speranza che si scrivesse da sola o venisse soppressa dal sistema. Condizioni che, sorprendentemente, non si sono verificate e che mi lasciano ancora nell’impasse di definirmi, di scrivere appunto una piccola bio. Ma che ti dico io nella mia bio? Chi sono?
Oddio, lo so benissimo chi sono e, in una forma sempre un po’ tossica di affetto, mi voglio pure bene. Però dirtelo o spiegartelo, ecco, questo mi mette un po’ in crisi. Perché sono, e sono sempre stata, un po’ questo e un po’ quello. E mi piace sempre un po’ questo ma anche un po’ quello. E amo e mi circondo di persone che sono un po’ questo e un po’ anche quell’altro.
Posso anche farti qualche esempio se hai tempo: ho una passione patologica per la disciplina ma trascorro annichilita interi giorni di svacco; sono alla continua ricerca di maestri severi e figure gerarchiche ma dammi un ordine e ti aggredisco; riesco a essere timida ed estroversa nella stessa serata con le stesse persone; mi affido ciecamente alla logica e alla razionalità ma prendo decisioni di importanza vitale guidata solo da noia o emotività; considero la famiglia l’unica cosa sacra nella vita ma poi i miei li vedo una volta ogni tre o quattro mesi.
E a me sembra che in questa matassa tutto fili perfettamente e che non ci sia alcuna vera contraddizione. Le contraddizioni sono altre, e mi coltivo pure quelle eh, costantemente combattuta tra un pensiero e il suo opposto, tra un’opinione e il suo contraltare.
Ma anche qui, che c’è di male? A me le contraddizioni non dispiacciono e, sebbene possa riconoscere un’utilità nel provare a dipanarle e nel non farle deragliare nell’ipocrisia, penso diano profondità alle persone, regalando sfaccettature e anche unicità.
E diffido sempre da chi ha un’idea ferma e solida perché quell’idea che non può mai cambiare è solo un limite, una rogna e una gabbia. Che ti impedisce di abbracciare, ma anche solo di assaggiare, un punto di vista nuovo o diverso dal tuo.
Ma ti immagini la noia di sapere già come la penserai su un qualsiasi argomento perché parti sempre da pilastri irremovibili? Io li guardo un po’ con orrore questi individui così sicuri, quelli che studiano e approfondiscono solo per darsi ragione, e che approfondendo inevitabilmente si inabissano nella versione più remota di sé stessi.
Quanto è più utile invece alzare il naso e inseguire questo sciame di contraddizioni, per cercare di acchiapparne col retino almeno un paio, arrivando senza rendersene conto in luoghi nuovi ma comunque mai estranei?
E, come le contraddizioni, anche le tendenze caratteriali o i gusti personali in conflitto tra loro sono solo le parti di un tutto che bisogna apprezzare o con cui bisogna fare almeno pace.
Quindi è tutto ok, mi dirai, abbiamo chiuso il cerchio. No, affatto, perché resta sempre il problema di definirlo questo tutto. Per la bio, diamine. Bisogna dargli un nome. E uno solo poi, è questo che non riesco a fare.
Allora di nuovo, chi sono? Potremmo provare a tracciare un quadro con il modello big five della personalità ma non ne ho alcuna voglia, perché si tratterebbe di vivisezionarmi lungo cinque tratti specifici per stabilire se sono o no una bella persona. E non ci tengo poi tanto a saperlo. Ho anche fatto un tentativo da sola ma non riesco neanche a capire come posizionarmi lungo lo spettro di ciascuna delle categorie del modello.
Forse la sto facendo troppo complicata, come al solito. Forse per una semplice bio basterebbe dire che lavoro faccio. Del resto ci definiamo un po’ tutti così in età adulta, col lavoro che facciamo. Ecco, no, a me il lavoro mi definisce fino a un certo punto e soprattutto questa newsletter non ha davvero nulla a che fare col lavoro. Quindi perché inserire il lavoro nella bio con cui mi dovrei presentare a qualcuno che non mi sentirà mai parlare di lavoro? Ma poi io trovo così salutare separarmi dal mio lavoro quando non lavoro. No, vedi, neanche questa strada è quella giusta.
Senti, facciamo così, mi arrendo perché ho capito di essere in un cul de sac. Lascio la bio sciatta ancora per un po’, con nome e cognome però (questo sì, mi definisce abbastanza), e poi si vedrà.
Visto letto sentito 🙈🙉🙊
Severance
Hai presente quando prima ti ho detto che è bello separarsi dal proprio lavoro? Ecco, la serie che ti consiglio oggi, Severance, parla proprio di questo, in un modo un po’ estremo però.
È la storia di un’azienda misteriosa, la Lumon, i cui dipendenti vengono sottoposti a un programma di scissione della memoria: vita lavorativa e vita privata vengono completamente separate nelle esperienze e nei ricordi di ogni dipendente, tanto da creare due diverse persone, quella che vive in ufficio, e che si sveglia ogni giorno nell’ascensore di questo ufficio, e quella che vive fuori dall’ufficio e che si riattiva ogni giorno all’uscita dal lavoro.
Il genere è quello della distopia o del thriller psicologico, non saprei, e c’è anche un po’ di fantascienza, ma solo come strumento tecnico, non per atmosfera. Anzi, l’estetica va più sul vintage ed è pazzesca, come pazzeschi sono il cast, la trama più che avvincente e gli spunti di riflessione infiniti.
Tipo, all’inizio mi sono detta quanto sarebbe una figata se la me che ti scrive non avesse idea di che lavoro fa la me che lavora. Poi però gli episodi sono andati avanti e mi è venuta un po’ di angoscia nel pensare che forse la me del tempo libero schiavizza in qualche modo la me che lavora per godersi questo tempo libero in pace, rendendo la vita di quella che lavora un vero incubo.
C’è tanto da guardare e tanto da pensare. Per questo ho finito la prima stagione in un weekend e aspetto con ansia la prossima. Proprio con ansia, perché mette pure tanta ansia.
Pinkabbestia
Solo qualcosa di rosa
Du spicci
Non riesco a capire se è pesca o albicocca.
H&M - Giacca € 39,99 e Pantaloni € 24,99
Saluti
Questa newsletter è una velleità che cercava di definirsi in poche righe e non ci è riuscita neanche dilungandosi.